Strada e pensieri
La strada per arrivare al Centro da casa mia non è poi così lunga: bastano 20 minuti a piedi, ma in così poco tempo sembra d’attraversare una porta che separa due mondi diversi. Il mio residence è il luogo in cui tutti vorrebbero vivere: nove alti palazzi gialli decorati da giardini ed alberi perfettamente curati, che ti fanno sentire a posto con te stesso, sempre nel posto giusto. Lasciandomelo alle spalle, m’immetto in una viuzza stretta, tutta curve, che però non dà altra possibilità se non quella di continuare a camminare dritto. Il sole è oscurato a causa delle palazzine che fiancheggiano i marciapiedi, ma, ostinatamente, s’infiltra in ogni fessura, disegnando sull’asfalto dissestato giochi di luce che hanno un nonsoché di poetico. I passi si susseguono, uno dopo l’altro, ed io mi concentro sul mondo intorno: vedo persiane dalla vernice ormai scrostata, dalle quali s’intravedono occhi opachi e stanchi di anziane signore con le spalle avvolte in scialli fatti a mano, che sbucciano patate o prendono un po’ di fresco. Dall’altro lato, invece, ci sono tre bambini: i loro visi hanno una bellezza inconsapevole, quasi selvaggia, che si nasconde, forse timidamente, dietro a magliette logore ed a pantaloncini troppo grandi per la loro taglia, puntualmente macchiati di olio: i tre si passano un vecchio pallone dalle toppe penzolanti, ed urlano come se si trovassero nel bel mezzo di un campo di calcetto; in realtà, stanno al centro della strada, ed ogni qualvolta sopraggiunge un’auto, comincia un concerto di clacson ed insulti, perché si sentono (ed a ragione) privati del loro diritto al gioco. Non sanno, però, che non è l’automobilista il colpevole di questo reato. Continuo per la mia strada, ed eccomi di fronte ad una bottega dall’aria un po’ tetra: ci guardo dentro, e vedo una donna dai tratti marcati e dalle braccia forti che stringe una piccina al petto, immagino sua figlia, e nel frattempo serve ad i suoi clienti un chilo di mele. La trovo meravigliosa, e sorrido, ma un amaro retrogusto s’infila tra i miei pensieri.
L’ultima parte del percorso è la più complicata: il marciapiede è ormai ricoperto da lambrette e motorini, e quindi devo spostarmi sulla carreggiata, cercando di non farmi investire da chi ha troppa fretta. La gente del posto deve fare lo stesso, ma è abituata a rispondere a tono, a far valere le proprie ragioni: qui vige la legge del più forte, la legge del “rispetto”. Ma è davvero questo qui, il vero “rispetto”? Rifletto, e mi dico che no, non è questo. Io mi sento rispettata quando vengo stimata, non quando incuto timore. Forse anche chi mi sta intorno se ne rende conto, ma non può fare a meno di sottomettersi alle regole instaurate dall’assenza di regole. Allora torno a pensare ai bambini di prima, quelli che si abbandonavano al sogno di essere famosi calciatori, ma che sul più bello venivano interrotti da un’incursione della Realtà in automobile: non è ammissibile che quella sia la metafora della loro vita, non posso sopportare l’idea che col tempo saranno costretti a rinunciare alla loro corsa verso la felicità per paura d’essere investiti.
Nel frattempo, sono giunta alla meta: visto da fuori, il Centro Tau è paragonabile ad una sorta di caverna: saracinesche chiuse, androne oscuro. Ricordo che il primo giorno mi ha messo anche paura. Cerco di mettere a tacere queste impressioni, perché ormai so bene che, una volta all’interno, l’antro mi rivelerà il suo segreto: è una cava di pietre preziose. Vedo tanti ragazzi, d’ogni età, tutti sorridenti, che si aiutano l’un l’altro, che mi salutano anche se non sanno chi io sia, e mi lascio contagiare dalla colorata allegria delle pareti, mi soffermo sulle citazioni dei film più belli della storia che figurano sui muri, e poi scorgo Daniela, che mi fa ciao con la mano e con un cenno m’invita ad entrare nella Stanza Rossa: prendo posto nel grande cerchio di sedie, e mi guardo intorno. Tutti quelli che sono seduti al suo interno hanno una storia particolare, e si fanno carico di problemi tutti diversi: penso che questo sia ciò che li rende speciali, perché solo se il carbone si trova sotto pressione può diventare un diamante.
Inizia l’incontro del progetto “Crescere al Sud”: non si parla di argomenti facili, anzi. Ci raccontiamo di realtà piuttosto dure, di ostacoli che sembrano insormontabili, di ragazzi spezzati e di storie ai limiti del possibile. Sappiamo tutti che la vita, quaggiù, è
lontanissima dall’essere quella delle fiabe che ascoltavamo da piccoli, ma non ci piangiamo addosso: si cerca tutti insieme una via d’uscita, un riscatto sociale, un modo per prendere coscienza, per liberarci dalle catene che ci legano ai pregiudizi ed alle contraddizioni della nostra bella terra. Non è un compito facile, e non è detto che ci riesca di portarlo a termine, ma penso che ciò che conti davvero sia provarci tutti insieme, muovere il primo passo: mia nonna mi dice sempre “U grossu è accuminciari”. Forse, allora, quelle signore anziane non saranno più sole alla finestra, i bambini avranno un posto in cui giocare, e il Sud avrà il suo opportunità per rinascere.
La speranza s’accende nel mio cuore, riscaldandomi l’anima ed i pensieri: vale la pena provare.